Il fatal 1866, come insegna la poetica risorgimentale, rappresenta l’anno in cui ebbe luogo la cosiddetta “Terza guerra di Indipendenza”. Approfittando del dualismo fra Austria e Prussia, per il controllo degli Stati tedeschi, il Governo italiano iniziò a coltivare il sogno della conquista del Veneto che si trovava ancora sotto il dominio austriaco.
In questa prospettiva, il presidente del Consiglio Alfonso Lamarmora stipulò il giorno 8 aprile 1866 un accordo con la Prussia di Otto von Bismarck con l’obiettivo di impegnare l’Austria su due fronti: quello settentrionale, con la Prussia e quello meridionale con l’Italia.
La preparazione della guerra, per l’Italia, fu caratterizzata da grande confusione di ruoli tra i vertici dell’esercito. Vi era infatti una forte rivalità fra il Re Vittorio Emanuele, che intendeva far valere la sua posizione di capo dello Stato, il generale Alfonso Lamarmora, che aveva assunto la direzione delle operazioni, e il generale Enrico Cialdini, noto anche come “il macellaio di Gaeta”, che concepiva la guerra come occasione per aggredire l’Impero austroungarico ed acquisire nuovi territori.
Rassegnata a dover fare delle concessioni territoriali e per non correre troppi rischi sul fronte meridionale, il 12 giugno 1866 l’Austria comprò la neutralità di Napoleone III assicurando la cessione del Veneto alla Francia che lo avrebbe poi girato all’Italia.
In questo modo il teatro decisivo della guerra diventava il fronte boemo, mentre quello con l’Italia veniva ad assumere una importanza molto minore per gli alti comandi austriaci i quali – come scrisse lo storico Taylor – avevano deciso di difendere il Veneto per il solo privilegio di cederlo poi alla Francia.
Le operazioni sul fronte prussiano furono affidate al generale Benedek il quale sostituì l’arciduca Alberto cui venne affidato il compito di difendere i confini meridionali dell’Impero, ritenuti non a torto molto meno rischiosi.
Sul fronte nord le cose andarono subito male per l’Austria. Benedek fu attaccato su più fronti e dopo una strenua resistenza venne battuto dai prussiani il 3 luglio 1866 a Sadowa. Prendeva corpo così il disegno di Otto von Bismack diretto a creare una “Piccola Germania”, solo tedesca, in contrapposizione alla “Grande Germania” che era sostenuta dagli austriaci e che si configurava come una entità plurilinguistica e pluriculturale.
Se a nord l’Austria accusava i colpi di una sconfitta epocale, più a sud l’Austria si distingueva invece per i successi di una guerra già decisa in partenza. Il 24 giugno, a poche ore dall’inizio della guerra con l’Italia, l’Arciduca Alberto trascinò i suoi uomini verso un significativo successo a Custoza, vicino a Verona. Tutto questo nonostante le truppe del generale Lamarmora, stanziate ad ovest del Mincio in Lombardia, avessero vantato una netta superiorità numerica rispetto a quelle asburgiche e le truppe del generale Cialdini fossero rimaste inoperose più a sud, verso il Po, senza portare alcun soccorso al Lamarmora.
Custoza fu il punto di partenza di una serie di disavventure belliche per i vertici militari italiani i quali mostrarono tutti i loro limiti e le loro incapacità. Solo il generale Garibaldi, cui fu affidato assieme al generale Medici il compito di avanzare lungo le Alpi, riuscì a varcare attraverso la valle Giudicarie le linee austro tirolesi. Il 3 luglio 1866, mentre l’Austria soccombeva a Sadowa, il generalissimo riusciva a conquistare il monte Suello al termine di una furiosa battaglia in cui egli stesso rimaneva ferito ad una gamba.
L’avanzata garibaldina, nonostante le gravi perdite, sembrava non incontrare grandi ostacoli. Gli austriaci erano a perfetta conoscenza della consistenza delle forze nemiche e confidavano sul fatto che la diplomazia internazionale e la stessa Prussia non avrebbero mai accettato di consegnare il Tirolo meridionale, ovvero il Trentino, nelle mani degli italiani perché in tal modo significava mettere gravemente a rischio il controllo del Brennero.
Ad ogni buon conto, il 18 luglio i volontari entravano in val di Ledro e lo stesso giorno si scontravano a Condino con un gruppo di austriaci che avevano organizzato una mini - controffensiva.
Il giorno successivo, il 19 luglio, i garibaldini riuscivano a conquistare il forte d’Ampola, un avanposto che gli austriaci peraltro ritenevano di secondaria importanza, ma che i volontari ritenevano decisivo per l’assalto finale verso Trento.
Gli austriaci, che di fatto avevano arretrato il fronte per meglio controllare le scorribande dei garibaldini, non erano però rimasti a guardare. Al comando del colonnello Montluisant, il 21 luglio due colonne marciarono attraverso la val di Concei riconquistando il paese di Locca e ferendo a morte il colonnello Giovanni Chiassi che provvisto di tre cannoni aveva il compito di contenere l’avanzata degli austriaci per favorire il ripiegamento dei suoi compagni. In quell’occasione furono fatti prigionieri oltre 500 garibaldini, quasi tutti appartenenti al quinto reggimento di Chiassi.
Le avanguardie garibaldine si ammassarono a Bezzecca, ma le artiglierie austriache ormai padrone del campo iniziarono un bombardamento a tappeto che rese di fatto inoffensivi i “cacciatori” garibaldini, costretti ad arrestrare frettolosamente verso Tiarno, e fruttò alle truppe austriache altri 500 prigionieri italiani.
E’ a questo punto che la cronaca dei fatti si confonde tra leggenda e fantasiose costruzioni di stampo risorgimentale. Duramente provato e infermo – veniva infatti trasportato su una barella che fu sottratta dagli austriaci durante i bombardamenti – Garibaldi ordinava a due battaglioni del nono Reggimento e al maggiore Dogliotti di reagire alla disfatta e concentrare tutte le forze sulla riconquista di Bezzecca.
Il contrattacco, secondo la versione italiana, ebbe un successo inaspettato e Garibaldi potè rioccupare Bezzecca con i suoi uomini, mentre le truppe del Montluisant ripiegavano verso Trento. In effetti ciò è quanto avvenne. Ma più che una ritirata quella dell’esercito austriaco doveva considerarsi un arretramento strategico. I garibaldini, duramente sconfitti, non avevano più alcuna possibilità offensiva, trovandosi decimati nei numeri e duramente provati sia nel fisico che nella psiche. Le cifre sono lì a dimostrarlo: le perdite austriache consistevano in 25 morti e 82 feriti, mentre quelle italiane in 100 morti, 250 feriti. Inoltre ben 1.200 prigionieri erano finiti nelle mani del Montluisant ed avviati a Trento già il giorno successivo alla battaglia.
Cosa era successo in realtà? Gli austriaci, avuta notizia che sul fronte della Valsugana stavano avanzando verso Trento le truppe del generale Medici, avevano deciso di abbandonare al loro destino le truppe garibaldine, ormai totalmente inoffensive, per correre a difesa della città di Trento in attesa dei rinforzi che dal Danubio, dopo la battaglia di Sadowa, stavano giungendo in Tirolo.
Di fatto Garibaldi e i suoi uomini non facevano più paura anche se, strategicamente, quella dell’Eroe dei due mondi a Bezzecca poteva essere considerata una platonica vittoria. A preoccupare gli austriaci adesso erano i regolari del generale Medici che avevano il compito di invadere il Tirolo attraverso la Valsugana ricongiungendosi con le truppe di Garibaldi.
In effetti il generale Cialdini, l’altro incomodo comandante militare, aveva iniziato la sua marcia attraverso il Veneto senza alcuna resistenza.
Il 19 luglio aveva affidato una delle sue divisioni, circa diecimila uomini e 180 cavalli, al generale Medici che coraggiosamente iniziò ad avanzare attraverso la Valsugana. A Primolano il 22 luglio incontrò una prima resistenza degli austriaci che ripiegarono verso Tezze. Qui vi furono ulteriori scontri a fuoco con gli austriaci del generale Kuhn i quali avevano l’ordine di rallentare quanto più possibile l’avanzata degli italiani in attesa di un primo rinforzo da Verona.
Gli austriaci, sostenuti dalla popolazione locale, che da sempre non vedeva di buon occhio gli eserciti invasori, si ritiravano frettolosamente verso Trento, ma non mancavano di affrontare gli italiani in scontri a fuoco anche violenti. A Borgo Valsugana le truppe comandate dal maggiore di settore, Franz Pichler, fecero strenua resistenza ai “regolari” italiani, erigendo con l’apporto della popolazione locale delle barricate.
A Levico una compagnia austriaca fu costretta ad arrendersi al Medici dopo un assalto alla baionetta, mentre il generale Kuhn, su disposizione dell’arciduca Alberto, ordinò alle truppe del Pichler di preparasi alla difesa di Trento. Per questo il comando delle operazioni venne affidato al generale Kaim che nel frattempo, dopo aver lasciato una tranquilla situazione a Bezzecca, aveva raggiunto il capoluogo. L’arretramento austriaco era ormai scontato. Le avanguardie del Medici avanzavano trionfalmente accolte dalla ricca borghesia cittadina, mentre a Trento si preparavano fortificazioni, trincee e barricate per affrontare l’ultimo assalto.
La partita dunque non era chiusa. Il 25 luglio il generale Medici, che frattanto aveva spostato il grosso delle sue milizie verso Viarago – Costasavina, affidò alla Brigata Sicilia del colonnello Negri il compito di aprire la strada verso Trento, superando la sella di Vigolo Vattaro e scendendo a Mattarello per bombardare la ferrovia.
Giunte a Valsorda, a monte del paese, le avanguardie italiane incontrarono una inaspettata resistenza di tre compagnie Schuetzen e una compagnia di Ulani, i quali - al comando del capitano trentino Fridolin Cramolini - riuscirono a respingere il contingente del Negri con un bilancio di tredici morti per le truppe italiane e due per quelle austriache.
Fu l’ultimo atto della campagna tirolese del generale Medici. Il 26 luglio a Nikolsburg veniva siglata la tregua d’armi fra Austria e Prussia col conseguente spostamento di migliaia di soldati austriaci – almeno 150.000 – dal fronte settentrionale a quello meridionale animati dall’intento di vendicare la sconfitta di Sadowa e cacciare gli italiani dal Tirolo meridionale e di proseguire l’avanzata verso la pianura padana. Preoccupati per l’imminente arrivo dei contingenti austriaci, gli italiani iniziarono dunque a riordinare le truppe per un imminente “ritorno” in Italia. Il rischio era infatti quello di trovarsi in breve tempo nella paradossale situazione di dover difendere un Veneto già di fatto acquisito per via diplomatica.
Cialdini e Garibaldi non avevano infatti alcuna possibilità, nelle condizioni in cui si trovavano, di difendere le posizioni conquistate. Ad aggravare la situazione anche la notizia della sconfitta della marina militare italiana a Lissa, nel mare Adriatico. Benchè nettamente superiore la flotta italiana – composta da 12 corazzate e 7 vascelli – fu battuta da quella austriaca composta da appena 7 corazzate e 11 vascelli. La flotta austriaca, composta prevalentemente da marinai veneti, friulani e istriani, era comandata dall’ammiraglio Wilhem von Tegethoff. Al comando di uno dei vascelli austriaci il giovane ma dinamico ammiraglio trentino barone von Moll che proprio in quella battaglia perderà la vita, travolto dall’albero della nave colpita dagli italiani.
La sconfitta di Lissa, unita al fallimento dell’intera campagna terrestre del 1866, indurrà gli italiani ad accettare prima una tregua d’armi e poi l’armistizio, il 12 agosto a Cormons, con l’Austria. Due mesi più tardi, 3 ottobre, sarà stipulata la pace a Vienna con il passaggio del Veneto all’Italia.